La Commissione Tributaria di Milano Sez. XLVII, 22 dicembre 2005, n. 272 con la quale si sostenne l’intassabilità dei redditi derivanti dalla attività di prostituzione fu il primo passo verso un’analisi del tipo di attività.

Le ragioni dei Giudici Tributari furono:

la mancanza dell’espressa indicazione della categoria reddituale cui il reddito andava ascritto, con ciò violandosi l’articolo 42 D.P.R. 600/1973 in materia di motivazione dell’atto impositivo – che deve contenere l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne stanno alla base -;

la tassabilità non può essere determinata dalla previsione racchiusa nell’articolo 14 della Legge 537/1993 – secondo cui anche i proventi derivanti dallo svolgimento di attività illecite sono da sottoporre a tassazione -, atteso che detta attività non è illecita;

si può ritenere che la somma percepita integri una sorta di risarcimento del danno, in ragione della lesione dell’integrità della dignità della persona insita nell’atto;

i redditi percepiti da tale attività non potrebbero essere ascritti ad alcuna categoria reddituale contemplata dal Tuir

Dopo questa sentenza ci sono state altre, ma l’ultima sentenza in materia della Suprema Corte , pare essere la n. 224134 del novembre 2016, con la quale si conferma che il reddito derivante dalla attività di prostituzione rientra tra quelli di lavoro autonomo, e che in assenza del requisito della abitualità, la sua tassazione è giustificata dalla previsione dell’articolo 67, lettera l), del Tuir, quale reddito di lavoro autonomo non esercitato abitualmente, ovvero dalla assunzione di obblighi di fare o permettere